lunes, julio 03, 2006

LA LIBERTA VIENE PRIMA: UN LIBRO DE TRENTIN

Esta recensión la ha hecho Mario Dellacqua. Nosotros recomendamos la lectura de este libro. Los pedidos pueden hacerse a gianmario.gillio@editoririuniti.it Debe quedar claro que Rafael Rodríguez Alconchel (ni nadie) cobra comisión por recomendar este u otros libros. Sólo vale 12 euros: más barato que dos cuba-libres.


Mario Dellacqua

Che strano, a volte. Ti giri da una parte e vedi un'Italia che tira il fiato per lo scampato pericolo. "Il rischio della democrazia italiana, privata di televisioni e intimidita gravemente nei giornali, era rappresentato da una persona sola", dal "potere troppo grande, troppo arbitrario, troppo circondato di silenzio, di Silvio Berlusconi". Ora, per fortuna, "il predominio e la prepotenza di un uomo solo" senza del quale "a destra non c'è niente di cui vale la pena occuparsi" sta per finire e "la missione è compiuta".C'è da augurarsi che l'ottimismo di Furio Colombo, straripante dalle colonne de L'Unità del 17 aprile, sia fondato. Ma se ti giri dall'altra parte, non sei più così sicuro che esista "un solo grande problema".
Se si legge la raccolta di scritti che Bruno Trentin ha da poco consegnato agli Editori Riuniti con l'inquietante titolo "La libertà viene prima", ci troviamo di fronte ad un'altra Italia. Il Paese che l'ex-direttore dell'Unità vede liberato grazie al tracollo irreversibile della leadership di Berlusconi, per l'ex-segretario generale della Cgil è invece pieno di problemi fin sopra i capelli. E il centro-sinistra ha poco da stare allegro e molte ragioni per rimboccarsi le maniche d'urgenza.
Trentin forza una porta per troppi anni rimasta blindata, quando spiega che per più di un secolo il movimento operaio ha affidato al conflitto distributivo per una migliore ripartizione della ricchezza il potere automatico di rispondere nella fabbrica socialista alle aspirazioni di libertà della persona umana. Già questo è un bel filo da torcere per una generazioni di intellettuali, di ricercatori, di militanti e di dirigenti politici che abbiano la testa sul collo e sappiano tenerla alta indipendentemente dall'uditorio che incrociano.

Ma Trentin non si accontenta di discutere l'argomento con Pino Ferraris e di esaminare le tormentate risposte che il movimento sindacale ha cercato di offrire all'antico problema della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende: consigli di gestione nella tradizione socialista e comunista, azionariato popolare nel pensiero cattolico o diritti di informazione alla scuola della Flm nei contratti nazionali del 1976? Per l'oggi, egli denuncia "l'assenza di un progetto" e, aprendo una porta sfondata, lo afferma anche a costo di vestire i panni del dirigente di prestigio ieri riverito e oggi studiosamente emarginato dagli stati maggiori.
In effetti, il dente è avvelenato. Ce n'è un po' per tutti. Per quattro volte, prima il Pds e poi i Ds hanno tentato di formulare documenti programmatici, ma poi hanno praticamente lasciato morire il cimento perché non vogliono lasciarsi imprigionare preventivamente in un trasparente patto con gli elettori. Preferiscono decidere sentendo l'aria che tira. Recitano a soggetto e rifiutano di volare alto. Sono provinciali perché mostrano "flebile interesse per qualche proposta di riforma" solo se costituisce "il pretesto per parlare dei conflitti tra i leader e decifrare" ciò che ci sta dietro. Rivelano di dipendere ancora troppo da una cultura del trasformismo che riconosce come un valore e non come una necessità la capacità di adattamento mimetico della politica alle circostanze. Di qui a sommare per ragioni puramente elettorali delle priorità tra loro contraddittorie, il passo è breve.
Trentin ha il dente avvelenato con Michele Salvati, perché dice di non aver "trovato nulla" nel "Manifesto per l'Italia" elaborato dalla Convenzione programmatica organizzata dai Ds a Milano. Poi non perdona l'esercito degli ideologi che hanno visto la "fine del lavoro" nelle grandi trasformazioni subite dagli assetti produttivi con il crollo del fordismo. Al contrario, si trattava di un'espansione su scala mondiale di tutte le forme di lavoro che fanno della persona che lavora pensando una tendenza che unifica un mondo disarticolato dal proliferare di nuove figure sociali, di cento condizioni contrattuali, di sfuggenti soggettività culturali.
Con la variopinta area del massimalismo, Trentin affonda la motosega e non il coltello nella ferita. Gli intellettuali d'assalto che contavano di dare una spallata al sistema con il "più uno!" delle rivendicazioni salariali hanno fatto una brutta fine e non ne prendono ancora atto. Continuano ad agitare le bandiere della protesta e ad impiegare linguaggi intransigenti, ma sono ridotti a fiancheggiare l'opera difensiva di quanti cercano nelle pieghe del welfare il risarcimento di poteri ormai travolti all'interno delle imprese. Con proterva superficialità - e senza uno straccio di successiva riflessione - sono state allegramente archiviate dai loro stessi sostenitori le 35 ore per via legislativa. Senza alcuna popolarità e senza una sola ora di sciopero erano come gli aumenti uguali per tutti che Trentin osteggiò e accettò a malincuore persino alla vigilia dell'autunno caldo quando era segretario generale della Fiom. Quella cultura dura a morire nega le trasformazioni e rifiuta di governarle per non sporcarsi le mani. Al massimo (che poi è il minimo) aspetta che esplodano nella speranza di guadagnare la liberazione di energie antagonistiche da spendere non si sa bene dove e come.
Infine Trentin critica quella sinistra succube dell'egemonia neoliberale che propone senza ritegno per l'oggi la riduzione del salario contrattuale ai nuovi assunti e per il domani la riduzione dei trattamenti pensionistici. L'ex leader della Cgil polemizza anche con Rosy Bindi, Tiziano Treu e Francesco Rutelli. Egli sostiene che la salute dei conti dell'INPS presuppone l'aumento della popolazione attiva e, necessariamente, passa attraverso il prolungamento incentivato dell'attività lavorativa: una strada già battuta con successo nei paesi scandinavi dove lavora il 70 per cento degli ultra55enni, mentre in Italia siamo fermi al 30 per cento.
Ma per fare ciò occorre una politica della formazione e dell'aggiornamento professionale capace di investire tutto l'arco della vita, di riqualificare i lavoratori anziani e di tutelarli con la mobilità verso altri impieghi quando le aziende ristrutturano, ridimensionano gli organici o addirittura chiudono. Insomma, è vero che l'istruzione costa cara, ma un paese moderno che vuole affrontare le sfide dell'economia globalizzata sa che quanto si risparmia con la diffusione sociale dell'ignoranza porta prima al degrado e poi alla rovina.
Può darsi che le elaborazioni di Trentin facciano venire l'orticaria come è successo a qualche esponente diessino turbato dalle invettive di Furio Colombo contro "il regime" berlusconiano. Non c'è dubbio, però, che i suoi interrogativi pretendono una risposta d'urgenza, non perché ce lo chiede Trentin, ma perché la grande domanda di unità che ha animato i primi passi della federazione dell'Ulivo e i recenti successi dell'Unione sono anche domande di coerenza. Meglio prenderle sul serio per evitare l'orticaria e qualche altra più grave malattia.

Editori Riunitipp.