lunes, junio 26, 2006

PREFIERO MORIR SIENDO SOCIALISTA

08 Giugno 2006
Morire socialista
Sezione “politiche
«Comprendo perfettamente la preoccupazione di De Mita di non finire almeno per ora nell’Internazionale socialista. Sono però sicuro che De Mita comprenderà le intenzioni di persone come me di partecipare a questo processo unitario e nello stesso tempo di morire socialista. Comprendo Chiamparino, quando si dichiara il sindaco di tutti e conseguentemente un uomo di centro ma credo che non debba dimenticare che è stato eletto sulla base di un programma anche nazionale che sa distinguere tra operai e banchieri, fra salario, profitto e rendita». Bruno Trentin, una delle menti più lucide della sinistra, alla faccia dell'anagrafe, propone un'alternativa al Partito democratico.
da l'Unità dell8 giugno 2006
Bruno Trentin: «Io voglio morire socialista» di Bruno Ugolini Dall’unificazione dei gruppi parlamentari e consiliari a convenzioni locali e poi nazionali, aperte alla società civile. Così l’Ulivo, guidato dalle direzioni nazionali dei partiti, potrà raggiungere un’unità nell’agire senza perdere l’identità e i valori di ciascuno Bruno Trentin, già segretario generale della Cgil, oggi nel gruppo dirigente dei Ds, è interessato al processo unitario nell’Ulivo. Ma delinea un tragitto complesso, che parta dal basso, fatto d’aggregazioni e convenzioni, su problematiche quali il mondo del lavoro e i diritti delle persone. È d’accordo con l’esigenza espressa, su queste pagine, dall’ex segretario della Cisl Savino Pezzotta, tesa a rispettare il pluralismo culturale presente nel centrosinistra. Polemiche con Salvati e De Mita: «Vorrei poter morire socialista». Meglio guardare subito ad una Federazione piuttosto che ad un indefinito e immaginario partito democratico. Che cosa ha colpito nell’intervista a Savino Pezzotta? «Mi è apparsa un’esposizione piena di saggezza. Soprattutto nelle sue osservazioni da “riformatore”, ricche come sono di un’esperienza sindacale anche illuminante. Mi riferisco ai suoi riferimenti circa le forme possibili d’unità tra le forze che diedero vita al processo dell’Ulivo e dell’Unione. Egli ha sottolineato, infatti, come la mortificazione del pluralismo delle idee e delle culture sia stata la causa principale della mancata unità sindacale». Quali suggerimenti trarre da un tale convincimento? È impossibile una fusione delle idee? «Si tratta di dare respiro, dal basso, come dice Pezzotta, alla volontà di partecipazione e non solo d’unità, delle forze che hanno dato vita, nella straordinaria esperienza delle “primarie” per l’elezione di Prodi. Questo vuol dire aggiungere all’unificazione dei gruppi parlamentari, processi d’unificazione di gruppi consiliari regionali e locali. Penso alla moltiplicazione d’esperienze e decisioni analoghe fra i gruppi dell’Ulivo, ma sempre aperti a nuove e diverse adesioni». Con un ruolo degli organismi nazionali? «Certo, è necessario lo stimolo delle direzioni nazionali dei partiti dell’Ulivo, con l’apertura di un più vasto dibattito con la società civile, nelle regioni e nei territori. Così è possibile coniugare la ricerca di una nuova unità nell’agire, con la salvaguardia del pluralismo dei valori e delle identità di ciascuno. È una ricchezza, questa, non un limite. Una ricchezza che permette anche di superare le ipocrisie e il “non detto”». Quali strumenti si potrebbero adottare e su che problematiche? «Penso a convenzioni locali, aperte sui punti di convergenza possibili e sulle identità e i valori che sono destinati a convivere. Penso a convegni di massa per riflettere, ad esempio, su temi decisivi come quello della centralità del lavoro e dei diritti delle persone, in questa fase di transizione vissuta dalla società italiana. Solo da lì può partire anche una convenzione nazionale che apra un grande dibattito, seguendo il modello della convenzione sulla Costituzione europea, come propone Giorgio Ruffolo. Ogni forza politica, ogni assemblea rappresentativa deve poter partecipare a questo forzo d’elaborazione dei contenuti e delle priorità da rispettare, ossia il cuore di un processo unitario». Come cercare di superare gli ostacoli che si frappongono ad un tale progetto? «È necessario fare giustizia delle riserve, del “non detto” e di concezioni che cercano di annullare velleitariamente il pluralismo delle idee e delle esperienze che concorrono a costituire la ricchezza e, nello stesso tempo, l’apertura verso il futuro che deve caratterizzare questa ricerca collettiva. Penso a posizioni espresse un tempo dal mio amico Michele Salvati, quando proponeva ai dirigenti dei Ds di fare un passo indietro, perché auspicava una scissione liberatoria del “correntone”. Io, d’altro canto, comprendo perfettamente la preoccupazione di De Mita di non finire almeno per ora nell’Internazionale socialista. Sono però sicuro che De Mita comprenderà le intenzioni di persone come me di partecipare a questo processo unitario e nello stesso tempo di morire socialista. Comprendo Chiamparino, quando si dichiara il sindaco di tutti e conseguentemente un uomo di centro ma credo che non debba dimenticare che è stato eletto sulla base di un programma anche nazionale che sa distinguere tra operai e banchieri, fra salario, profitto e rendita». Il tema dell’affiliazione internazionale futura rimane dunque privo di una possibile soluzione? «Sono convinto che l’apertura all’esterno, all’Europa, il rifiuto di una visione autarchica del processo unitario in Italia, debba tener conto delle diverse identità culturali. È possibile immaginare che l’Italia diventi il solo Paese europeo privo di una forza che si richiami al socialismo? Allora credo, con Dario Franceschini, che sia velleitario, nella fase attuale, superare l’adesione dei Ds al Partito socialista europeo o l’adesione della Margherita ai Democratici Liberali o anche ai Popolari. Sono elementi ora non superabili ma che possono coesistere con una disciplina vincolante dei deputati dell’Ulivo al Parlamento europeo, sulle questioni che appaiono di comune interesse». E come potrà essere risolto il problema del gruppo dirigente? «Anche qui il pluralismo delle identità e delle storie culturali e politiche, non consente, anche se potrà essere auspicabilmente superato nel futuro, di pensare realisticamente ad una direzione personale unica di questo processo, dopo la leadership di Romano Prodi. Questa soluzione verrebbe, in un caso o nell’altro, vissuta come un’inaccettabile egemonia (a questa si riferisce Rutelli nella sua recente presa di posizione). Nello stesso tempo io credo che sia velleitario pensare, in questa fase, a decisioni del nuovo soggetto politico prese con la maggioranza semplice. Allora perché non decidere subito che certe ipotesi non sono a portata di mano e che una discussione defatigante sulle forme e sui tempi può anche compromettere gli sviluppi del processo unitario? È un tragitto che ha bisogno d’anni d’esperienze comuni, al basso come in alto, per diventare un fattore di contaminazione fra le diverse culture. E perché non riconoscere, come ha fatto Piero Fassino, una possibile forma federativa di questo nuovo processo, mantenendo il suo riferimento all’Ulivo? Senza inventare, dunque, delle parole “passepartout”, come Partito Democratico o Partito Riformista, che non consegnano più ai cittadini il sentimento che stiamo costruendo un nuovo soggetto, fatto di valori e democrazia interna, assolutamente inediti nella democrazia italiana». È una decisione preliminare? «Occorre riflettere subito, affinché l’obiettivo realistico di una Federazione non sia vissuto poi, rispetto a scenari immaginari, come una soluzione di ripiego».